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OTTOBRE 2011

     

“Dove scompare Dio, l’uomo cade nella schiavitù di idolatrie”.

 Benedetto XVI: Udienza Generale dell’ 15 giugno 2011

 

Cari fratelli e sorelle!

nella storia religiosa dell’antico Israele, grande rilevanza hanno avuto i profeti con il loro insegnamento e la loro predicazione. Tra di essi, emerge la figura di Elia, suscitato da Dio per portare il popolo alla conversione. Il suo nome significa «il Signore è il mio Dio» ed è in accordo con questo nome che si snoda la sua vita, tutta consacrata a provocare nel popolo il riconoscimento del Signore come unico Dio. Di Elia il Siracide dice: «E sorse Elia profeta, come un fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola» (Sir 48,1). Con questa fiamma Israele ritrova il suo cammino verso Dio. Nel suo ministero, Elia prega: invoca il Signore perché riporti alla vita il figlio di una vedova che lo aveva ospitato (cfr 1Re 17,17-24), grida a Dio la sua stanchezza e la sua angoscia mentre fugge nel deserto ricercato a morte dalla regina Gezabele (cfr 1Re 19,1-4), ma è soprattutto sul monte Carmelo che si mostra in tutta la sua potenza di intercessore quando, davanti a tutto Israele, prega il Signore perché si manifesti e converta il cuore del popolo. È l’episodio narrato nel capitolo 18 del Primo Libro dei Re, su cui oggi ci soffermiamo. Ci troviamo nel regno del Nord, nel IX secolo a.C., al tempo del re Acab, in un momento in cui in Israele si era creata una situazione di aperto sincretismo.

Accanto al Signore, il popolo adorava Baal, l’idolo rassicurante da cui si credeva venisse il dono della pioggia e a cui perciò si attribuiva il potere di dare fertilità ai campi e vita agli uomini e al bestiame. Pur pretendendo di seguire il Signore, Dio invisibile e misterioso, il popolo cercava sicurezza anche in un dio comprensibile e prevedibile, da cui pensava di poter ottenere fecondità e prosperità in cambio di sacrifici. Israele stava cedendo alla seduzione dell’idolatria, la continua tentazione del credente, illudendosi di poter «servire a due padroni» (cfr Mt 6,24; Lc 16,13), e di facilitare i cammini impervi della fede nell’Onnipotente riponendo la propria fiducia anche in un dio impotente fatto dagli uomini.

È proprio per smascherare la stoltezza ingannevole di tale atteggiamento che Elia fa radunare il popolo di Israele sul monte Carmelo e lo pone davanti alla necessità di operare una scelta: «Se il Signore è Dio, seguiteLo. Se invece lo è Baal, seguite lui» (1Re 18, 21). E il profeta, portatore dell’amore di Dio, non lascia sola la sua gente davanti a questa scelta, ma la aiuta indicando il segno che rivelerà la verità: sia lui che i profeti di Baal prepareranno un sacrificio e pregheranno, e il vero Dio si manifesterà rispondendo con il fuoco che consumerà l’offerta. Comincia così il confronto tra il profeta Elia e i seguaci di Baal, che in realtà è tra il Signore di Israele, Dio di salvezza e di vita, e l’idolo muto e senza consistenza, che nulla può fare, né in bene né in male (cfr Ger 10,5). E inizia anche il confronto tra due modi completamente diversi di rivolgersi a Dio e di pregare. I profeti di Baal, infatti, gridano, si agitano, danzano saltando, entrano in uno stato di esaltazione arrivando a farsi incisioni sul corpo, «con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue» (1Re 18,28). Essi fanno ricorso a loro stessi per interpellare il loro dio, facendo affidamento sulle proprie capacità per provocarne la risposta. Si rivela così la realtà ingannatoria dell’idolo: esso è pensato dall’uomo come qualcosa di cui si può disporre, che si può gestire con le proprie forze, a cui si può accedere a partire da se stessi e dalla propria forza vitale. L’adorazione dell’idolo invece di aprire il cuore umano all’Alterità, ad una relazione liberante che permetta di uscire dallo spazio angusto del proprio egoismo per accedere a dimensioni di amore e di dono reciproco, chiude la persona nel cerchio esclusivo e disperante della ricerca di sé. E l’inganno è tale che, adorando l’idolo, l’uomo si ritrova costretto ad azioni estreme, nell’illusorio tentativo di sottometterlo alla propria volontà. Perciò i profeti di Baal arrivano fino a farsi del male, a infliggersi ferite sul corpo, in un gesto drammaticamente ironico: per avere una risposta, un segno di vita dal loro dio, essi si ricoprono di sangue, ricoprendosi simbolicamente di morte.

Ben altro atteggiamento di preghiera è invece quello di Elia. Egli chiede al popolo di avvicinarsi, coinvolgendolo così nella sua azione e nella sua supplica. Lo scopo della sfida da lui rivolta ai profeti di Baal era di riportare a Dio il popolo che si era smarrito seguendo gli idoli; perciò egli vuole che Israele si unisca a lui, diventando partecipe e protagonista della sua preghiera e di quanto sta avvenendo. Poi il profeta erige un altare, utilizzando, come recita il testo, «dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe, al quale era stata rivolta questa parola del Signore: “Israele sarà il tuo nome”» (v. 31). Quelle pietre rappresentano tutto Israele e sono la memoria tangibile della storia di elezione, di predilezione e di salvezza di cui il popolo è stato oggetto. Il gesto liturgico di Elia ha una portata decisiva; l’altare è luogo sacro che indica la presenza del Signore, ma quelle pietre che lo compongono rappresentano il popolo, che ora, per la mediazione del profeta, è simbolicamente posto davanti a Dio, diventa “altare”, luogo di offerta e di sacrificio. Ma è necessario che il simbolo diventi realtà, che Israele riconosca il vero Dio e ritrovi la propria identità di popolo del Signore. Perciò Elia chiede a Dio di manifestarsi, e quelle dodici pietre che dovevano ricordare a Israele la sua verità servono anche a ricordare al Signore la sua fedeltà, a cui il profeta si appella nella preghiera. Le parole della sua invocazione sono dense di significato e di fede: «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose sulla tua parola. Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!» (vv. 36-37; cfr Gen 32, 36-37). Elia si rivolge al Signore chiamandolo Dio dei Padri, facendo così implicita memoria delle promesse divine e della storia di elezione e di alleanza che ha indissolubilmente unito il Signore al suo popolo. Il coinvolgimento di Dio nella storia degli uomini è tale che ormai il suo Nome è inseparabilmente connesso a quello dei Patriarchi e il profeta pronuncia quel Nome santo perché Dio ricordi e si mostri fedele, ma anche perché Israele si senta chiamato per nome e ritrovi la sua fedeltà. Il titolo divino pronunciato da Elia appare infatti un po’ sorprendente. Invece di usare la formula abituale, “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, egli utilizza un appellativo meno comune: «Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele». La sostituzione del nome “Giacobbe” con “Israele” evoca la lotta di Giacobbe al guado dello Yabboq con il cambio del nome a cui il narratore fa esplicito riferimento (cfr Gen 32,31) e di cui ho parlato in una delle scorse catechesi. Tale sostituzione acquista un significato pregnante all’interno dell’invocazione di Elia. Il profeta sta pregando per il popolo del regno del Nord, che si chiamava appunto Israele, distinto da Giuda, che indicava il regno del Sud. E ora, questo popolo, che sembra aver dimenticato la propria origine e il proprio rapporto privilegiato con il Signore, si sente chiamare per nome mentre viene pronunciato il Nome di Dio, Dio del Patriarca e Dio del popolo: «Signore, Dio […] d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele». Il popolo per cui Elia prega è rimesso davanti alla propria verità, e il profeta chiede che anche la verità del Signore si manifesti e che Egli intervenga per convertire Israele, distogliendolo dall’inganno dell’idolatria e portandolo così alla salvezza. La sua richiesta è che il popolo finalmente sappia, conosca in pienezza chi davvero è il suo Dio, e faccia la scelta decisiva di seguire Lui solo, il vero Dio. Perché solo così Dio è riconosciuto per ciò che è, Assoluto e Trascendente, senza la possibilità di mettergli accanto altri dèi, che Lo negherebbero come assoluto, relativizzandoLo. È questa la fede che fa di Israele il popolo di Dio; è la fede proclamata nel ben noto testo dello Shema‘ Israel: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze» (Dt 6,4-5). All’assoluto di Dio, il credente deve rispondere con un amore assoluto, totale, che impegni tutta la sua vita, le sue forze, il suo cuore. Ed è proprio per il cuore del suo popolo che il profeta con la sua preghiera sta implorando conversione: «questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!» (1Re 18,37). Elia, con la sua intercessione, chiede a Dio ciò che Dio stesso desidera fare, manifestarsi in tutta la sua misericordia, fedele alla propria realtà di Signore della vita che perdona, converte, trasforma.

Ed è ciò che avviene: «Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto. A tal vista, tutto il popolo cadde con la faccia a terra e disse: “Il Signore è Dio, il Signore è Dio”» (vv. 38-39). Il fuoco, questo elemento insieme necessario e terribile, legato alle manifestazioni divine del roveto ardente e del Sinai, ora serve a segnalare l’amore di Dio che risponde alla preghiera e si rivela al suo popolo. Baal, il dio muto e impotente, non aveva risposto alle invocazioni dei suoi profeti; il Signore invece risponde, e in modo inequivocabile, non solo bruciando l’olocausto, ma persino prosciugando tutta l’acqua che era stata versata intorno all’altare. Israele non può più avere dubbi; la misericordia divina è venuta incontro alla sua debolezza, ai suoi dubbi, alla sua mancanza di fede.

Ora, Baal, l’idolo vano, è vinto, e il popolo, che sembrava perduto, ha ritrovato la strada della verità e ha ritrovato se stesso.

Cari fratelli e sorelle, che cosa dice a noi questa storia del passato? Qual è il presente di questa storia? Innanzitutto è in questione la priorità del primo comandamento: adorare solo Dio. Dove scompare Dio, l’uomo cade nella schiavitù di idolatrie, come hanno mostrato, nel nostro tempo, i regimi totalitari e come mostrano anche diverse forme del nichilismo, che rendono l’uomo dipendente da idoli, da idolatrie; lo schiavizzano. Secondo. Lo scopo primario della preghiera è la conversione: il fuoco di Dio che trasforma il nostro cuore e ci fa capaci di vedere Dio e così di vivere secondo Dio e di vivere per l’altro.

E il terzo punto. I Padri ci dicono che anche questa storia di un profeta è profetica, se – dicono – è ombra del futuro, del futuro Cristo; è un passo nel cammino verso Cristo. E ci dicono che qui vediamo il vero fuoco di Dio: l’amore che guida il Signore fino alla croce, fino al dono totale di sé. La vera adorazione di Dio, allora, è dare se stesso a Dio e agli uomini, la vera adorazione è l’amore. E la vera adorazione di Dio non distrugge, ma rinnova, trasforma. Certo, il fuoco di Dio, il fuoco dell’amore brucia, trasforma, purifica, ma proprio così non distrugge, bensì crea la verità del nostro essere, ricrea il nostro cuore. E così, realmente vivi per la grazia del fuoco dello Spirito Santo, dell’amore di Dio, siamo adoratori in spirito e in verità. Grazie.

 

 

 

Udienza generale di Benedetto 16°

Mercoledì, 24 agosto 2011

 

Cari fratelli e sorelle,

 

oggi vorrei riandare brevemente con il pensiero e con il cuore agli straordinari giorni trascorsi a Madrid per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù. E’ stato, e lo sapete, un evento ecclesiale emozionante; circa due milioni di giovani da tutti i Continenti hanno vissuto, con gioia, una formidabile esperienza di fraternità, di incontro con il Signore, di condivisione e di crescita nella fede: una vera cascata di luce. Ringrazio Dio per questo dono prezioso, che dà speranza per il futuro della Chiesa: giovani con il desiderio fermo e sincero di radicare la loro vita in Cristo, rimanere saldi nella fede, camminare insieme nella Chiesa. Un grazie a quanti hanno lavorato generosamente per questa Giornata: il Cardinale Arcivescovo di Madrid, i suoi Ausiliari, gli altri Vescovi di Spagna e di altre parti del mondo, il Pontificio Consiglio per i Laici, sacerdoti, religiosi e religiose, laici. Rinnovo la mia riconoscenza alle Autorità spagnole, alle istituzioni e associazioni, ai volontari e a quanti hanno offerto il sostegno della preghiera. Non posso dimenticare la calorosa accoglienza che ho ricevuto dalle loro Maestà i Reali di Spagna, come pure da tutto il Paese.

In poche parole naturalmente non posso descrivere i momenti così intensi che abbiamo vissuto. Ho in mente l’entusiasmo incontenibile con cui i giovani mi hanno ricevuto, il primo giorno, nella Piazza de Cibeles, le loro parole ricche di attese, il loro forte desiderio di orientarsi alla verità più profonda e di radicarsi in essa, quella verità che Dio ci ha dato di conoscere in Cristo. Nell’imponente Monastero di El Escorial, ricco di storia, di spiritualità e di cultura, ho incontrato le giovani religiose e i giovani docenti universitari. Alle prime, alle giovani religiose, ho ricordato la bellezza della loro vocazione vissuta con fedeltà, e l’importanza del loro servizio apostolico e della loro testimonianza profetica. E rimane in me l'impressione del loro entusiasmo, di una fede giovane, e piene di coraggio per il futuro, di volontà di servire così l'umanità. Ai professori ho ricordato di essere veri formatori delle nuove generazioni, guidandole nella ricerca della verità non solo con le parole, ma anche con la vita, consapevoli che la Verità è Cristo stesso. Incontrando Cristo incontriamo la verità. Alla sera, nella celebrazione della Via Crucis, una moltitudine variegata di giovani ha rivissuto con intensa partecipazione le scene della passione e morte di Cristo: la croce di Cristo dà molto più di ciò che esige, dà tutto, perché ci conduce a Dio.

Il giorno seguente, la Santa Messa nella Cattedrale della Almudena, a Madrid, con i seminaristi: giovani che vogliono radicarsi in Cristo per renderlo presente un domani, come suoi ministri. Auspico che crescano le vocazioni al sacerdozio! Tra i presenti vi era più di qualcuno che aveva udito la chiamata del Signore proprio nelle precedenti Giornate della gioventù; sono certo che anche a Madrid il Signore ha bussato alla porta del cuore di molti giovani perché lo seguano con generosità nel ministero sacerdotale o nella vita religiosa. La visita ad un Centro per i giovani diversamente abili mi ha fatto vedere il grande rispetto e amore che si nutre verso ogni persona e mi ha dato l’occasione di ringraziare le migliaia di volontari che testimoniano silenziosamente il Vangelo della carità e della vita. La Veglia di preghiera alla sera e la grande Celebrazione eucaristica conclusiva del giorno dopo sono stati due momenti molto intensi: alla sera una moltitudine di giovani in festa, per nulla intimoriti dalla pioggia e dal vento, è rimasta in adorazione silenziosa di Cristo presente nell’Eucaristia, per lodarlo, ringraziarlo, chiedere aiuto e luce; e poi alla domenica, i giovani hanno manifestato la loro esuberanza e la loro gioia di celebrare il Signore nella Parola e nell’Eucaristia, per inserirsi sempre di più in Lui e rafforzare la loro fede e vita cristiana. In un clima di entusiasmo ho incontrato i volontari alla fine che ho ringraziato per la loro generosità e con la cerimonia di congedo ho lasciato il Paese portando nel cuore questi giorni come un grande dono.

Cari amici, l’incontro di Madrid è stato una stupenda manifestazione di fede per la Spagna e per il mondo prima di tutti. Per la moltitudine di giovani, provenienti da ogni angolo della terra, è stata un’occasione speciale per riflettere, dialogare, scambiarsi positive esperienze e, soprattutto, pregare insieme e rinnovare l’impegno di radicare la propria vita in Cristo, Amico fedele. Sono certo che sono tornati alle loro case con il fermo proposito di essere lievito nella massa, portando la speranza che nasce dalla fede. Da parte mia continuo ad accompagnarli con la preghiera, affinché rimangano fedeli agli impegni assunti. Alla materna intercessione di Maria, affido i frutti di questa Giornata.

 

E ora desidero annunciare i temi delle prossime Giornate Mondiali della Gioventù. Quella dell’anno prossimo, che si svolgerà nelle singole Diocesi, avrà come motto: “Siate sempre lieti nel Signore!”, tratto dalla Lettera ai Filippesi (4,4); mentre nella Giornata Mondiale della Gioventù del 2013 a Rio de Janeiro, il motto sarà il mandato di Gesù: “Andate e fate discepoli tutti i popoli!” (cfr Mt 28,19). Fin d’ora affido alla preghiera di tutti la preparazione di questi molto importanti appuntamenti. Grazie.

 

 

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Ultimo aggiornamento: 12 novembre 2021
 
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