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OTTOBRE 2011

     

DALLA DROGA ALL’ALTARE

Testimonianza di Don Roberto Dichiera

 

Iesi (Ancona), aprile .

            Per i fedeli della chiesa di Santa Maria a Monte, un paesino in provincia di Pisa, la Messa di Natale del 1993 fu una specie di incubo. “Padre nostro che sei nei cieli… “, stavano recitando, quando, all’improvviso il portale si spalancò. Tutti si voltarono: sulla soglia c’era un ragazzo dallo sguardo allucinato e vestito come una rockstar, con gli anfibi e una specie di gonnellina scozzese. “Allora, siete ancora qui?”, sbraitò strafottente, rivolto ad alcuni coetanei seduti nelle ultime file. “Dai che la discoteca ci aspetta!” Ai paesani riuniti per celebrare la Natività si gelò il sangue. Un’anziana donna si sentì mancare. Qualcuno mormorò, scuotendo la testa: “E’ quel Roberto, Dio lo benedica”.

            Adesso, quasi diciotto anni dopo, “quel Roberto” torna ancora ogni tanto nella chiesa di Santa Maria a Monte, il borgo dove è cresciuto. Ma i fedeli non lo temono più, anzi lo aspettano. Aspettano che esca dalla sacrestia, raggiunga l’altare e celebri la S. Messa. Perché Roberto ora è un prete. Proprio così: l’incallito amante delle discoteche, che aveva fatto irruzione in chiesa, lo “sballato” che si faceva di alcool e droga e godeva nel trascinare se stesso e gli altri sulla via della perdizione, ha incontrato Dio. Prima distribuiva “pasticche” nei locali: ora impartisce la Comunione. E per conto della comunità internazionale Nuovi Orizzonti, che l’8 dicembre 2010 ha ricevuto l’approvazione pontificia e opera in tutto il mondo, intervenendo nelle situazioni di grave disagio sociale, gira l’Italia per dare conforto a centinaia di ragazzi in difficoltà, proponendo loro un’incredibile storia di fede e di speranza,: la propria.

            Stavo bruciando nell’inferno quando un giorno il Signore ha mandato un angelo a salvarmi, un angelo con le sembianze di una meravigliosa ragazza”, dice Roberto Dichiera 36 anni, che ho incontrato a Iesi, nelle Marche, durante uno dei suoi pellegrinaggi. Con sé ha alcune foto che mostrano Roberto di ieri. “Quello che fin da bambino detestava i preti, cambiava canale quando in TV appariva il Papa e che aveva fatto la Cresima solo perché lo volevano mamma e papà”, dice. “A me interessava solo divertirmi e sentirmi “grande”. Al diavolo la religione, la scuola e tutto il resto.

            Prima sigaretta a 12 anni. Primo superalcolico a 13. A quattordici arrivano spinelli e discoteca, la domenica pomeriggio: “Ai miei dicevo che andavo a fare un giro in paese con gli amici”, ricorda. Dopo la terza Media, Roberto non ebbe più voglia di studiare. Papà e mamma speravano nel diploma, ma accettarono. Lui si arrangiò con qualche lavoretto, apprendista parrucchiere, commesso in un negozio di pelletteria. “Ma era un modo come un altro per tirare su due lire per il fine settimana”, racconta. “Dicevo: guai a chi mi tocca il sabato e la domenica. Il sabato e la domenica si balla, si sballa e si va con le ragazze”.

            Detto e fatto. A diciotto anni Roberto era ormai un “disco dipendente” a tutti gli effetti. Si scatenava in pista dalla sera del sabato al mattino del giorno dopo, per poi passare in un altro locale a tirare il pomeriggio. Di bell’aspetto e spigliato com’era, diventò una specie di “ragazzo immagine” ballando sul cubo, nelle discoteche della sua Toscana ma anche in “trasferta” un po’ in tutta Italia. Un John Travolta infaticabile che, per “tenersi su”, non si accontentava ormai di qualche cocktail e di un paio di spinelli. “Cominciai ad “assaggiare” un po’ di tutto”, racconta. “Pastiglie di ecstasy, Lsd, e soprattutto “trip”, cioè una specie di francobolli che ti drogano solo leccandoli. Uno sguardo d’intesa in pista da ballo, un salto alla toilette e si contrattava. Guadagnavo anche settecentomila lire a sera”.

            A diciannove anni partii per il servizio militare, in Veneto, e fu anche peggio”,racconta Don Roberto. “Avevo la mia “roba” anche in caserma: bastava farla sparire nella spazzatura quando arrivavano le ispezioni e poi ripescarla, e il gioco era fatto. Poi, il venerdì, si tornava a casa in permesso e partiva il lungo fine settimana in discoteca. Insomma una di quelle vite nelle quali prima o poi qualcosa di brutto ti capita”.

            Invece capitò qualcosa di magico. In treno, durante uno dei suoi rientri dalla caserma veneta alla Toscana, Roberto incontrò Manuela. “Io ero con i miei commilitoni, lei con un paio di amiche. Mora, bellissima, simpatica. Sentii subiti qualcosa dentro, una strana sensazione qui”, dice toccandosi il cuore. “Lei scese a Bologna, ma ci eravamo lasciati i rispettivi numeri di telefono, giurando che ci saremmo risentiti e magari rivisti”. E infatti si chiamarono, si videro, complice Cupido. Lui sacrificò uno dei suoi pazzi fine settimana ogni mese per andare a trovarla a Bologna. “Sentivo che qualcosa in me stava cambiando: io, che ero sempre passato di ragazza in ragazza, mi stavo innamorando. All’inizio cercai di resistere, di restare quello che ero trascinando anche Manuela nel mio mondo fatto di sballo ed eccessi. Le raccontai tutto di me, le dissi che l’avrei fatta divertire. Ma c’era una forza strana in lei, qualcosa che mi diceva: “Roberto, non sarò io a seguire te. Semmai il contrario”.

            E infatti piano piano Roberto cambiò. “La domenica mattina Manuela andava a Messa, e questo succedeva anche quando andavo a dormire da lei a Bologna”, racconta. “Io non volevo fare quello che resta a letto a poltrire, così’ cominciai ad accompagnarla. Le prime volte restavo in fondo alla chiesa e pensavo: “Che noia”. Poi, con il passar dei mesi, presi a trascorrere quasi tutti i fine settimana da lei e la Messa diventò una costante. Lo facevo per amore, certo, ma a poco a poco iniziai ad ascoltare l’omelia, a provare a schiudere le labbra nella preghiera: ma non me ne ricordavo una, era dai tempi della Cresima che non dicevo un’Ave Maria”.

            Don Roberto si ferma un attimo, sospirando. Dice di essere solo un po’ stanco, ma si vede che quella fase della storia è quella che più gli sconvolge l’anima. “Un giorno trovai nella soffitta di casa mia un libretto tutto sbiadito”, continua. “Un libretto con tutte le preghiere, lasciato lì da chissà chi. Lo portai in camera, nascondendolo: mi vergognavo a far vedere che io, “il duro”, mi mettevo a leggere e ad imparare a memoria preghiere. Eppure non riuscivo a farne a meno. Così come non riuscii a trattenermi dal prendere un Vangelo che c’era nella libreria di casa, “divorandolo” come fosse un romanzo. E pensare che avevo sempre considerato i libri spazzatura…”.

            Grazie a Manuela, insomma, Roberto Dichiera sembrava un’altra persona. Niente più discoteca, ma soprattutto niente droga. “Buttai le ultime pastiglie che avevo in fondo ad un armadio”, dice. E se gli chiedi come abbia fatto a non andare in crisi di astinenza risponde: “Una forza di volontà che mai avrei pensato di avere”. Ma la storia non è finita. Roberto, in chiesa, sentì il bisogno di confessarsi. Dopo tanti anni, fece addirittura la Comunione: “Tornato ad inginocchiarmi, con il viso tra le mani, scoppiai in lacrime. E fu forse in quel momento, così vicino a Cristo, che sentii la sua chiamata”.

            Chiedo a don Roberto di essere più chiaro, di cercare di definire la sensazione di quei momenti. “La vocazione è qualcosa che non si può descrivere a parole”, mi risponde con un sorriso. E infatti nemmeno Manuela, l’adorata Manuela, poté capire. “Proprio lei, che prima era costretta a trascinarmi a messa, adesso quasi si preoccupava per il mio comportamento: in qualunque città ci trovassimo, io volevo subito correre in chiesa per la confessione e l’Eucaristia. “Roby, ma che cosa ti prende? Ora esageri”, mi diceva. Io invece non stavo per niente esagerando, stavo finalmente cominciando a capire che il Signore mi stava chiamando a sé, che nonostante avessi fatto tanto male nella mia vita, lui mi amava lo stesso. E voleva insegnarmi a mia volta ad amare, mandando un angelo a indicarmi la via…”.

            Quest’angelo era Manuela, vero?”, gli chiedo.

            “Infatti. Il suo compito era stato quello di strapparmi all’inferno, e ci era riuscita. Ma non era lei la destinazione finale del mio amore: erano i bisognosi, i ragazzi disadattati, le pecorelle smarrite. Per questo, un giorno di quel lontano 1996, decisi di diventare sacerdote. Manuela all’inizio non volle crederci, furono giorni di lacrime e di disperazione. Ma io ormai avevo deciso. Non potevo, non volevo più sottrarmi alla chiamata divina: io, ex spacciatore di droga e di false emozioni, avrei dedicato il resto della mia vita a spiegare agli altri che la fede in Dio ti può salvare. Parola di Don Roberto”.

                                                                                                   Metello Venè

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Ultimo aggiornamento: 12 novembre 2021
 
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