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GENNAIO 2007

 

 

“DIALOGO, TOLLERANZA, PERDONO” Dada

 

  Si rischia di parlare in modo astratto se non si chiarisce che cosa s'intende per dialogo (*) tra le religioni. Intanto è importante evitare alcuni errori, commessi in passato, quando si vuole impostare un dialogo fra credenti di altre religioni e fra cristiani di differenti confessioni. Perché sottolineare convergenze e divergenze, contrasti componibili o insuperabili, ovvero paragonare due sistemi di fede e di vita può essere di competenza di qualsiasi bravo studioso di storia delle religioni, ma il dialogo fra credenti dell'una e dell'altra religione è qualcosa di diverso. Le modalità con cui rapportarsi con chi professa religioni differenti dalla nostra possono essere varie, ma la volontà di rapportarsi attraverso un certo tipo di dialogo si rivela la via migliore.

  In passato sono stati messi in pratica modi di approccio alternativi, che hanno portato spesso a profonde incomprensioni. Vediamone alcuni:

  1. C'è chi nell'altro vede soltanto un nemico da combattere con le armi della polemica. Con le armi e la guerra; con la polemica pure (pòlemos in greco significa guerra), perché chi fa polemica muove guerra all'altro con le armi della parola e degli argomenti.
  2. Si può mettere in cattiva luce l'altro, parlando soltanto in favore della propria posizione, presentandola come l'unica giusta: in questo modo si fa dell'apologetica.
  3. Peggio è quando si vuole fare del “proselitismo” , con cui si cerca di convertire, distogliendo l'altro dalla religione che pratica.

  Queste modalità hanno fatto scorrere in passato anche del sangue fra i popoli e diffuso spesso insofferenza fra religioni diverse.

  Al contrario è necessario diffondere la cultura della tolleranza come alternativa alle strategie di scontro fra sistemi religiosi.

  In una società civile la tolleranza porta alla convivenza pacifica e costruttiva fra pluralità di credenze, senza far propria nessuna religione, ma permettendole tutte (purché siano compatibili con il bene pubblico e la libertà degli altri). Dunque la tolleranza è un bene. Papa Giovanni XXIII parlò di porre l'accento su ciò che unisce piuttosto che su ciò che divide. Paolo VI prospettò il dialogo come confronto non solo tra cristiani di diverse confessioni (dialogo ecumenico), non solo tra diverse religioni (dialogo interreligioso), ma tra credenti e non credenti

 

  "La via da proseguire è la tolleranza che, comunque, per avere un senso sociale utile, non può prescindere dalla “reciprocità” d'intenti. L'assenza di confronto e di scambio delle rispettive conoscenze non potrà mai portare ad un arricchimento delle proprie culture, né a qualsiasi “chiarimento”". (Raion Panikkar – “Tra Dio e il cosmo” – Dialogo con Gwendoline Jarczyk – Editori Laterza).

 

* (Il “dialogo”, per il vocabolario Zingarelli, è un “discorso fra due o più persone, un confronto basato sulla disponibilità al chiarimento e all'intesa”)

 

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  Riporto la domanda di una lettrice su “Famiglia Cristiana” cui ha risposto il teologo Domenico De Rio.

Domanda : Sulla strada aperta dal Concilio e dai gesti coraggiosi di Giovanni XXIII e Paolo VI, l'attuale pontefice a Olomoue in Boemia, ha chiesto perdono per i torti e le sofferenze inflitte ai non cattolici nel corso dei secoli. “Perdoniamo e chiediamo perdono” e non sono solo parole…

                Laura S. - Milano.

Risposta: Il perdono che, nel suo viaggio a Praga, Giovanni Paolo II ha chiesto ai cristiani protestanti è, direi, l'aspetto sentimentale e penitente di quella realtà più grande e complessa che è il cammino ecumenico nel rispetto tra le varie confessioni dei credenti in Cristo: cattolici, ortodossi, protestanti, evangelici, anglicani.

La storia della divisione dei cristiani è piena di torti, di violenze, di odio, con gravi responsabilità di tutte le parti, il che è il maggiore scandalo che i seguaci di un vangelo che predica l'amore possano dare davanti agli uomini.

 

 

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Trent'anni di dialogo

  Il perdono, allora, poiché implica il riconoscimento del male che si è fatto, è la disposizione d'animo preliminare per intraprendere un dialogo sincero e rispettoso. Si potrebbe dire, d'altra parte, che forse è anche l'atteggiamento più facile, poiché si può perdonare, o dire di perdonare, e poi mantenere molta rigidità e immobilità di posizioni sul piano degli aspetti dottrinali e istituzionali.

  Solenne e appassionato è stato certamente il pronunciamento di Wojtyla: “Oggi, io papa della Chiesa di Roma, a nome di tutti i cattolici, chiedo perdono per i torti inflitti ai non cattolici nel corso della storia turbolenta di queste genti; e al tempo stesso assicuro il perdono della Chiesa cattolica per quello che di male hanno patito i suoi figli”.

  Ma, se il gesto di Giovanni Paolo II è apparso clamoroso, perché fatto pubblicamente in una piazza e amplificato dai giornali e dalla televisione, bisogna dire che papa Wojtyla, oltre che esprimere un profondo sentimento, a nome proprio e di tutta la Chiesa cattolica, ha ripetuto parole che già il Concilio Vaticano II e Paolo VI avevano pronunciato. A trentacinque anni dalla chiusura del concilio è bene che i cattolici esercitino la memoria di ciò che è avvenuto nella grande assemblea dei vescovi. Giovanni XXIII aveva invitato i rappresentanti delle altre confessioni cristiane e li aveva accolti con il suo grande animo di padre di tutti. Diceva loro che, al momento dell'inaugurazione del concilio nella basilica vaticana, li era andati a cercare con “l'occhio” in mezzo alla folla dei padri conciliari: “L'occhio, ogni qual tratto, andava a ricercare tanti figli e fratelli. Scorgendo subito il vostro gruppo, le vostre singole persone, ho tratto motivo di conforto dalla vostra presenza”. Papa Giovanni, con questa sua splendida capacità ci avvicinare tutti nell'amore, non aveva bisogno nemmeno di pronunciare la parola perdono.

 

 

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Il decreto sull'ecumenismo

  Questa parola c'è invece, nel decreto del concilio sull'ecumenismo. “Unitatis reintegratio”, in cui si dice: “Anche delle colpe contro l'unità vale la testimonianza di S. Giovanni: “Se diciamo di non aver peccato, lo tacciamo di bugiardo, e la parola di Lui non è in noi” (1 Gv 1.10). Perciò con umile preghiera chiediamo perdono a Dio e ai fratelli separati, come pure noi rimettiamo ai nostri debitori”.

  Se un po' sbrigative e burocratiche, possono apparire le espressioni del decreto sull'ecumenismo, molto più calde e appassionate erano state le parole di Paolo VI, quando si era rivolto ai rappresentanti dei “fratelli separati”, che erano presenti nell'aula conciliare di S. Pietro. “Se alcuna colpa fosse a noi imputabile per tale separazione”, aveva detto il Papa, “noi ne chiediamo a Dio umilmente perdono e domandiamo venia altresì ai fratelli che si sentissero da noi offesi; e siamo pronti, per quanto ci riguarda, a condonare le offese, di cui la chiesa cattolica è stata oggetto, e a dimenticare il dolore che le è stato recato nella lunga serie di dissensi e separazione”.

 

 

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Una sfida per il popolo di Dio

   (….) Se il primo millennio del cristianesimo è stato caratterizzato dall'unità dei cristiani e il secondo dalla loro disunione, il terzo, nel sogno di Wojtyla, dovrebbe essere quello della riconciliazione. Si tenga presente però, che Giovanni Paolo II, pronunciando la parola perdono, ha parlato “a nome di tutti” i cattolici”. Il che vuol dire che questo lavoro e questa fatica non sono da lasciare solo al papa. Sentimenti e gesti di riconciliazione devono essere opera di tutto il popolo di Dio.

 
 

 

 

 


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Ultimo aggiornamento: 12 novembre 2021
 
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